Del Ritratto







Non è poi così difficile capire o fare un ritratto dipinto.
C’è un filo da seguire, lo stesso filo che segui sia quando sei tu a eseguire
il ritratto, sia quando lo guardi, magari nella galleria di un museo.
No, non è difficile capire un ritratto dipinto. Trovi una traccia qualsiasi e la
segui. Tutto qui. Cominci a valutare i colori, se caldi, freddi. Il tipo di
pennellata, se morbida, dura , aerea, leggera o spessa e densa. Guardi se colui
che è ritratto ha dietro di se un fondo colorato, o se è immerso in un fondo
buio e impenetrabile, o se intorno a se ha oggetti o un ambiente che serve a
evidenziare il suo ruolo sociale. E allora se c’è un racconto, se c’è una
storia, cominci a capire. Una storia. Una storia che è sempre una storia
doppia, la storia di chi lo ha dipinto, e di colui che è dentro il dipinto.
E c’è la luce. Poiché in un dipinto, più di ogni altra cosa è la luce a
raccontare tutto, a nascondere o disvelare. Con che tipo di luce è stato
rappresentato quel personaggio? Con la luce naturale dell’aria, con la luce
carezzevole della sera o con quella misteriosa delle candele? E’ solo
attraverso quella luce che potremo vedere la vita, la morte, l’eros,
l’allegria, la speranza della sua esistenza.
Ci sono ritratti che si fanno guardare molto, altri sono discreti ed è come se
non volessero essere guardati. Poi ci sono i ritratti che ti guardano, guardano
te che guardi loro. Ti guardano dentro, insistentemente.
Chi fa ritratti sa che ogni persona ha dentro anche un paesaggio, che ognuno
di noi ricorda un paesaggio. Alcune persone ricordano il mare, alcune il
deserto, altre la nebbia del bosco in certe mattine d’inverno.
Chi fa ritratti sa che ogni persona ricorda una materiale. Alcune sono
morbide, plastiche mutevoli come l’argilla. Altre sono ostili e dure come la
roccia, e altre si spezzano facilmente come il pane, e solo in quel momento,
oltre la fragilità, scopri il mondo che hanno dentro. Altre, ancora, ricordano
la sabbia, che scivola dalle mani ma lascia sempre qualche granello che non va
via.
Chi fa ritratti sa che ogni persona ricorda una casa. Case assolate, case
aperte a tutti. Case dove non c’è aria o case dove le finestre sono sempre
aperte. Case tetre, oscure, respingenti, spaventose. Case che ti avvolgono, ti
ammaliano, case che non puoi lasciare, case che crollano. Case che attirano la
luce.
Il rapporto tra il pittore e colui che è ritratto può essere profondo e complesso,
sereno o nevrotico. Complicità, deferenza, diffidenza, distacco , partecipazione, dualismo, attesa.
Può succedere di tutto o nulla mentre uno sta immobile e l’altro disegna o fa qualcosa, o fa finta di fare qualche cosa.
Ma un ritratto, quando non si limita solo ad essere somigliante e a compiacere il committente, è sempre ambiguo
e ha sempre piani di lettura diversi. E’ meglio non dimenticare che ci sono artisti che creano sempre e altri che mentre creano distruggono.
Se penso ad un ritratto di Schiele o Picasso non penso che hanno riprodotto una persona: penso che quasi sempre l’hanno sistematicamente distrutta.
Chi fa ritratti può limitarsi a dipingere ciò che è facile vedere. O può
seguire il filo che unisce ragione e follia in tutti noi, e che Freud chiamava
“forze oscure”. In bilico su quel filo sottile, ragione e follia, anima e
identità si destrutturano continuamente, facendoci essere alternativamente
uomini e donne, adulti e bambini e vecchi. Facendoci essere paesaggio assolato
o paesaggio avvolto nella foschia; facendoci essere materia, argilla, roccia,
foglia; facendoci essere casa che è stata abitata felicemente o mestamente.
Siamo in un tempo e in una coscienza mutevoli, elastici, che allungano o
restringono incessantemente lo spazio della nostra esistenza.